Domenica 9 ottobre esco di casa per recarmi in redazione. C’era una riunione. Neanche mezz’ora e mi arriva un messaggio su Facebook di una mia amica che mi scrive:

“Tutto ok da te?”.

“Perchè?”

“C’è stato un attentato terroristico a Gerusalemme…”

Gerusalemme al tramonto

Gerusalemme al tramonto

Secondo le prime ricostruzioni, tutto è accaduto in breve tempo: un 39enne proveniente da Gerusalemme Est, a bordo della sua auto, avrebbe iniziato a sparare, colpendo a caso le persone. L’attentatore è stato immediatamente ucciso.

Sette persone sono rimaste ferite, di cui due fatalmente: un poliziotto che ha provato a fermare il 39enne e un’anziana signora che se ne stava dentro la sua macchina. Non c’entrava nulla.

L’attentato è stato rivendicato immediatamente da Hamas, il gruppo terroristica che dal 2006 controlla la striscia di Gaza.

Il 39enne è stato definito “un eroe”.

Il Cardo

Il Cardo

Sapete qual è la cosa che più mi ha colpito? Nessuno ne ha fatto una tragedia, nessuno che fosse sconvolto della cosa. E la città, nonostante un breve momento di panico, ha continuato ad andare avanti come se nulla fosse successo.

In qualsiasi altra parte del mondo un attaco del genere avrebbe paralizzato interamente una città, mentre qui, ahimé, non è nulla di nuovo. Sono abituati agli attentati.

Va detto che erano diversi mesi che non succedeva nulla a Gerusalemme e che dall’autunno scorso non si verificavano attentati degni di nota, dopo un lungo periodo in cui sparatorie e accoltellamenti erano diventati una quotidianità nella capitale.

Ora, in molti temono che possa essere l’inizio di una nuova escalation di attacchi in un mese, come quello di ottobre, che per il calendario ebraico è importantissimo. Il più di tutti.

Si è da poco celebrato il capodanno e lo Yom Kippur, la festività più importante dell’anno. E’ il periodo migliore per un attentato, dicono, il periodo di maggior tensione religiosa di tutto l’anno qui in Israele.

D’altronde, basta poco per capire come funzionano le cose da queste parti: basta prendere un autobus, per la precisione il 231,

Il muro di separazione a Betlemme

Il muro di separazione a Betlemme

e recarsi a Betlemme, a 10 km dalla Città Santa. Il passaporto non serve se sei un “turista”.

Per tutti i cristiani e i musulmani (i quali lo riconoscono come un profeta al contrario degli ebrei) qui è dove è nato Gesù, tanto che esiste una chiesa dove è possibile visitare, se si è disposti a fare a cazzotti con i vari fedeli, il luogo in cui è stato deposto nella mangiatoia il figlio di Dio.  Insomma: tutto molto bello.

Il problema di Betlemme lo si nota appena ci si allontana dal centro città: un muro alto una ventina di metri che separa in due case, strade, palazzi, colline.

Lo chiamano “Il Muro di Separazione”.

Il muro al tramonto separa Israele dalla West Bank

Il muro al tramonto separa Israele dalla West Bank

Senza entrare troppo nei dettagli, dovete sapere che dopo il 2002 e la seconda intifada palestinese, Israele ha eretto un muro, lungo 700 km, che separa in due i territori israeliani da quelli della Cisgiordania. Per Israele il muro è chiamato “Muro salva-vita”, per la Palestina il muro è stato rinominato “Muro della Vergogna”.

Nulla può entrare in Israele, nulla può uscire dalla Palestina, senza che passi attraverso i vari checkpoint, controllati dai soldati israeliani. Filo spinato, torrette di guardia, soldati pronti a sparare al primo tentativo di scavalcarlo.

Mentre ero a Betlemme, un tassista che mi guidava in giro per la città mi fa: “E’ da più di 15 che non posso andare più a Gerusalemme. E’ così per tutti i palestinesi che vivono qua.”

Per il diritto internazionale il muro è una violazione dei diritti dell’uomo, molte persone hanno definito la Cisgiordania come la più grande galera a cielo aperto, eppure qualsiasi israeliano ti dirà che il muro è stato necessario, che è stato fatto per difendere Israele dai terroristi palestinesi. Il muro ha fermato i terroristi, dicono.

Quelle persone che poi arrivano a Gerusalemme e sparano alla cieca sui passanti o che accoltellano gli ebrei ultra ortodossi nella Vecchia Città dopo la preghiera del venerdì al Muro del Pianto.

Ero nei pressi del muro di separazione, quando alcuni ragazzi hanno dato fuoco a un cassonetto dell’immondizia in segno di protesta contro i soldati israeliani.

"Uomo che tira i fiori", una delle opere di Banksy più famose.

“Uomo che tira i fiori”, una delle opere di Banksy più famose.

La risposta non si è fatta attendere: da una delle torrette, i soldati hanno immediatamente aperto il fuoco contro i manifestanti, colpendoli con dei gas lacrimogeni. Tutto di fronte ai miei occhi, mentre il tassista rideva e mi diceva: “Siamo stati fortunati, un minuto di più e beccavano anche noi!”

Il muro è un simbolo di ciò che succede oggi in Israele e del perché succede tutto ciò, eppure la vita scorre avanti. Gli israeliani da un lato. I palestinesi dall’altro.

E sui muri, migliaia di murales, come quelli di Banksy, il famoso street artist inglese che negli anni Duemila si era recato a Betlemme per dipingere alcune delle sue opere.

Graffiti meravigliosi e provocatori, come la colomba coperta con un giubbotto antiproiettile e un mirino pronto a fare fuoco su di essa.

In una sua intervista, Banksy racconta:

« Anziano: Dipingi il muro, lo rendi bello.

Bansky: Grazie

Anziano: Non vogliamo che sia bello, odiamo questo muro, vattene. »

Questo è solo una testimonianza e Betlemme è solo un esempio.

Un'altra opera di Banksy vicino al Muro di Separazione

Un’altra opera di Banksy vicino al Muro di Separazione

Io non so chi abbia ragione e non voglio esprimere opinioni a riguardo. Sono un estraneo. Un giornalista. Cerco solo di capire. O quantomeno provarci.

Eppure, più passano i giorni qui a Gerusalemme, e più mi domando:

“Che senso ha tutto ciò?”