Premessa: In genere nel blog scrivo sempre di viaggi, reportage d’avventura, qualche articolo e molte storie. Ogni tanto mi capita anche di scrivere di argomenti più seri, come in questo caso, dove ho analizzato la crisi libica, per cercare di capire a che gioco stanno giocando le potenze internazionali. Un’analisi anche per capire quali potranno essere gli sviluppi di questa crisi a soli 300 km dalle sponde italiane. L’articolo è stato presentato all’Università Iulm di Milano per il corso di Geografia delle Relazioni Internazionali, coordinato dal Prof. Angelo Turco. Parte di questo articolo lo trovate pubblicato anche su questo sito.

Spero possiate trovarlo interessante e utile per capire cosa diavolo sta succedendo in Libia. A fondo pagina, trovate tutta la bibliografia che mi ha aiutato in questo lavoro. Il pezzo è stato modificato, rispetto la sua versione iniziale, per essere adattato al web, per renderlo meno ampolloso, noioso e per renderlo più usufruibile da tutti quanti e, soprattutto, interessante. Troverete anche alcune mappe, gentilmente prese da Limes, per rendere ancora più chiara la situazione. 

CRISI LIBICA:

A CHE GIOCO STANNO GIOCANDO LE POTENZE INTERNAZIONALI? 

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Una mappa esaustiva, per avere un quadro generale dell’Africa in termini di geopolitica

Se si potesse riassumere cosa sta succedendo oggi in Libia, la parola perfetta per poter comprendere realmente la situazione sarebbe “Frammentarietà”.  Va detto, infatti, che il regime di Gheddafi aveva attuato una grandissima ed efficace strategia di “divide et impera” su vasta scala, riuscendo a mantenere un’unità statale di facciata e una legittimità internazionale solo grazie al suo esteso apparato di repressione. Cosa che oggi non esiste più. Ci ritroviamo di fronte al caos più totale.

Dopo la caduta del Colonnello, è come se il paese fosse stato ripetutamente sconquassato , preso letteralmente a mazzate, fino a che non si è spaccato in diverse parti: attualmente, in Libia, esistono due diverse entità governative che si scannano fra di loro e, nel mezzo, una una miriade di poteri informali, dai contorni spesso confusi e oscuri.

Ufficialmente possiamo dire che la Libia ha oggi due “governi”. Le virgolette sono più che necessarie perché si tratta di fazioni che più che altro rappresentano due coalizioni di gruppi armati, con scarsissima presa sul già debole apparato statale e senza nessuna capacità di autonomia effettiva. Totalmente incapaci di vincere. In stallo.

Per essere più precisi: da una parte del ring troviamo il primo esecutivo/coalizione, che opera tra le due città di al-Bayḍā’ e Tobruk( viene chiamato, per l’appunto,  Governo di Tobruk) , all’estremità orientale del paese e a ridosso del confine con l’Egitto. L’esecutivo è guidato da ‘Abdullāh al-Ṯinnī e riceve assistenza militare, oltre che un sostegno politico, dall’Egitto del generale al-Sīsī.

Il governo di Tobruk è stato eletto dal parlamento uscito dalle ultime elezioni del 25 giugno, la Camera dei rappresentanti, ma non è stato in grado di affermarsi e di consolidare il proprio potere. Nonostante ciò, in virtù di questa presunta legittimità elettorale, Tobruk gode attualmente del riconoscimento di tutta la comunità internazionale. Questo territorio è comandato dal generale Ḫalīfa Ḥaftar, ex membro del regime poi distanziatosi da Gheddafi, tornato dagli Stati Uniti in Libia dopo l’inizio della crisi libica e oggi leader dell’Operazione Dignità che dal maggio 2014 combatte gli islamisti libici. Haftar, nonostante la sua scarsa presa su gran parte del territorio libero, in particolare a Bengasi,  è il vero punto di riferimento all’interno di questo fronte. Per molti libici, Haftar sembra essere l’unica speranza di uscita dalla crisi.

Dall’altra parte del ring, a quasi mille chilometri più a ovest, vi è il governo di Tripoli, non riconosciuto da nessun paese al mondo. Anzi, spesso additato di dare manforte ai diversi gruppi terroristici presenti in Libia.  L’autoproclamato “Governo di salvezza nazionale” è presieduto da ‘Umar al-Ḥāsī. A eleggerlo è stato il Congresso generale nazionale, il vecchio parlamento votato nel 2012 e resuscitato la scorsa estate, il quale si è rifiutato di accettare il verdetto delle elezioni del giugno 2014.

Il governo di Tripoli è espressione di numerose fazioni: in primis la coalizione Alba libica, che mette insieme diverse milizie di tendenza islamista, poi ci sono le potenti brigate di Misurata(comandante da alcuni ricchi signori della guerra della città) e, infine, alcuni pezzi della minoranza berbera, che dopo la caduta di Gheddafi, reclamano la loro autonomia e una voce in capitolo all’interno del paese. Alba ha, inoltre, un’alleanza di convenienza(ma anche fonte principale di tutti i suoi problemi) con il gruppo islamista estremista Anṣār al-šarī‘a, ritenuto un vero e proprio gruppo terrorista. Questa alleanza, nonostante tutto, viene difesa da al-Ḥāsī, persino in interviste con i media occidentali, e la cosa non lo ha aiutato, anzi,  ha contribuito ulteriormente a distruggere la già scarsa credibilità internazionale di questa compagine, sempre accusata di ricevere sostegno dai turchi e dai quattrini in nome della difesa dell’islam politico.

In questo grande e oltremodo complesso scenario complicato emerge, a partire dalla scorsa estate, il  vano e disperato tentativo di mediazione delle Nazioni Unite, rappresentate dall’inviato speciale, lo spagnolo Bernardino León( che giorno dopo giorno si domanderà: “Ma chi me lo ha fatto fare?”) . L’obiettivo sarebbe quello di formare un governo di unità nazionale e di raggiungere un accordo sul cessate-il-fuoco. Ma il compito sembra sempre più difficile di quello che si si aspettare e non è detto che i due elementi possano coincidere: infatti, ironia del caso,  ci potrebbe essere un governo «di largo consenso» con i moderati di Tobruk e di Misurata, ma potrebbero nel frattempo continuare i combattimenti fra le due coalizioni. Un’unione che avrebbe più la sensazione di essere di facciata, piuttosto che realmente effettiva.

In tutto ciò, enorme ciliegina sulla torta, non bisogna dimenticare il ruolo importate che lo Stato Islamico si è ritagliato sempre più nella parte centrale del paese, con esponenti dell’Isis che hanno preso il controllo del porto di Derna, nell’est della Libia, e successivamente anche la città di Sirte. In poche parole: se la situazione era tragica, ora lo è diventato ancora di più. Tanto che l’espressione perfetta per riassumere la comparsa dello Stato Islamico all’interno della crisi libica potrebbe essere: “Dalla padella, alla brace.”

Possiamo quindi dire che fra ottobre 2014 e febbraio 2015, in soli cinque mesi, lo Stato Islamico (Is) in Libia ha fatto progressi notevoli. Tanto da sorprendere l’intera comunità internazionale. Sul serio. Nessuno se lo sarebbe immaginato. Né alla Casa Bianca, né in tutti gli uffici dei maggiori leader mondiali. Figuriamoci in Italia. L’Isis è diventato un problema imminente, dall’oggi al domani.

Una panoramica sulla Libia

Una panoramica sulla Libia

 

Questa nuova branca del gruppo capeggiato da al-Baġdādī, sebbene all’inizio sembrasse semplicemente una accozzaglia di uomini messi a caso sotto il nome dello Stato Islamico, in realtà ha dimostrato di sapere il fatto proprio,  conducendo operazioni in tutta la fascia costiera libica, attaccando sia il governo di Tobruk sia le installazioni petrolifere e spingendosi più volte fino a Tripoli. Mettendo in difficoltà entrambe le coalizioni.Per non parlare poi della decapitazione, il 16 di febbraio, di 21 ostaggi egiziani copti(una minoranza cristiana) e delle minacce rivolte al governo italiano. Celebre la frase: “Siamo qui, a sud di Roma”.

In questo grande quadro politico che vede contrapporsi diverse parti fra di loro:

Quale è il ruolo delle varie potenze internazionali?  

Difficile spiegarlo, vista la sua controversia, ma potremmo definirlo come un ruolo più di facciata, che di sostanza. Tanto fumo, poca carne.

Dopo la brutale dipartita di Gheddafi, con uno stato completamente allo sbaraglio senza più alcuna struttura governativa, la reazione delle varie potenze è stata quella di impegnarsi per la rinascita di una Libia libera, ma senza il dispiegamento di truppe ed equipaggiamenti sul territorio libico.

In parole povere: un impegno parziale, molto più politico che militare, evitando i vari rischi e, soprattutto, gli esorbitanti costi che un intervento armato avrebbe comportato. Tutto ciò per scongiurare gli stessi errori commessi negli anni passati in paesi come l’Afghanistan e l’Iraq.

A partire dagli Stati Uniti, passando per l’Inghilterra e la Francia, fino ad arrivare all’Italia, la tendenza è stata di tipologia attendista, cercando di promuovere la formazione di un nuovo governo libico, ma senza una strategia convinta e ben delineata che portasse a degli esiti effettivi.

L’unico risultato ottenuto è stato quello di spianare la strada ai gruppi islamici, ai fanatici, alle varie fazioni armate e a chiunque avesse la capacità di imporre la propria volontà con le armi, mentre la Libia è sprofondata giorno dopo giorno in un caos sempre più critico.

Le colpe delle varie potenze mondiali derivano dalla loro incapacità di stabilire un periodo di transizione dopo la caduta della dittatura, un periodo transitorio che avrebbe permesso nuove elezioni e la costituzione di un governo unico.

Nonostante alcuni raid aerei da parte dell’Alleanza Atlantica, durante le fasi finali della dittatura gheddafiana, lasciassero presagire un successivo intervento militare della Nato, nulla di tutto ciò ha avuto luogo. Troppi i timori, troppe le incertezze di rimanere coinvolti in una situazione simile a quella vissuta nei paesi mediorientali. Uno scenario che avrebbe portato a ingenti perdite sotto il profilo umano ed economico, senza condurre a una stabilizzazione dell’area libica.

Molti analisti internazionali sostengono che le potenze mondiali siano al momento bloccate all’interno di un limbo fra l’intenzione d’intervenire e quella di evitare tutto ciò, ma negli ultimi mesi, con l’ascesa dello Stato Islamico in Libia, qualcosa sembra essere cambiato. L’opzione di un intervento armato non è più un ipotesi così remota, soprattutto per il timore che l’Isis possa espandersi in tutta la Libia e prenderne il controllo.

Ma perché in Libia, finora, nessuno è ancora intervenuto seriamente?

Semplice! Il motivo è che il caos libico ha determinato per ora danni tangibili solo alle nazioni limitrofe (Italia, Egitto, Tunisia, Algeria e paesi del Sahel). Inoltre, non ci sono piani né prospettive di alleanze su cui basare un intervento militare, quindi su cosa poter fare leva? Niente!

Le stesse fazioni che si fronteggiano per guadagnare il controllo del paese, il fronte islamista Alba libica e il governo legittimo trasferitosi a Tobruk, hanno sempre respinto l’ipotesi di truppe straniere sul territorio libico, della serie: “La guerra è nostra, lasciateci fare…” Il tutto, ribadendo una pretesa espressa già nel 2011 dai movimenti riuniti nel Consiglio nazionale di transizione, che pure combatterono il regime di Gheddafi con l’aiuto dei raid aerei della Nato e con armi e consiglieri militari forniti da Italia, Gran Bretagna, Francia e Qatar.

Da mesi il governo italiano di Matteo Renzi si è reso disponibile a guidare una missione di peacekeeping varata dalle Nazioni Unite ma per il momento esclusa dal Consiglio di Sicurezza, il cui decollo pare piuttosto complicato in assenza di un’intesa tra le due principali fazioni libiche e che in ogni caso vedrebbe ben pochi stati occidentali disponibili a inviare proprie truppe in una spedizione di caschi blu dai contorni confusi e dai rischi elevatissimi.

Eppure qualcosa sembra, come già dichiarato in precedenza, muoversi a livello internazionale. In particolar modo per quanto riguarda la posizione del vicino della Libia, l’Egitto, specialmente dopo l’uccisione di 21 egiziani copti lo scorso febbraio. Se all’Egitto serviva una scusa per intervenire, nulla sarebbe potuto essere più ideale di queste efferate decapitazioni da parte dello Stato Islamico.

Insieme con l’Egitto di Al-Sīsī, un altro attore esterno da non sottovalutare sono gli Emirati Arabi Uniti del principe ereditario Muhammad Bin Zāyid.

La coppia Egitto-Emirati è schierata al fianco di Tobruk fin dall’estate 2014, quando diversi raid di aerei «non identificati» vennero poi attribuiti a caccia emiratini con assistenza egiziana e il legame del governo di Tobruk con il Cairo e gli Emirati è molto stretto, tanto che molti esponenti di rilievo del governo di Tobruk risiedono negli Emirati.

La strategia degli Emirati e dell’Egitto si è dispiegata in pieno, come già detto, dopo la pubblicazione del video dei copti egiziani. Nelle settimane successive, a più riprese, il governo di Tobruk e l’Egitto(il quale ha anche effettuato dei raid aerei in territorio libico, delle incursioni elitrasportate a Derna e pattugliato le coste intorno la Libia per impedire approvvigionamenti bellici alle frange jihadiste) hanno cercato di far votare al Consiglio di Sicurezza dell’ONU la sospensione dell’embargo sulle armi per il governo libico riconosciuto internazionalmente. Senza riuscirci.

Infatti, hanno trovato un muro per quanto riguarda la Gran Bretagna e Stati Uniti, che insieme alla Francia e all’Italia sono le potenze internazionali maggiormente coinvolte per quanto riguarda la crisi libica. Un muro invalicabile.

Le dinamiche americane

Le dinamiche americane

Perché gli Stati Uniti e la Gran Bretagna nicchiano e non vogliono intervenire? 

Mentre la Francia e l’Italia rispondevano con messaggi più ambigui all’offensiva diplomatica (e militare) egiziana, Stati Uniti e Regno Unito hanno respinto al mittente sia la richiesta di un mandato Onu per un intervento del Cairo in Libia sia i tentativi di eliminare l’embargo sulle armi.

Cameron e Obama sono accomunati dalla stessa esigenza: evitare che i loro paesi siano trascinati in altri interventi militari in Medio Oriente nel futuro prossimo.

A Washington e a Londra sono restii a intervenire in supporto dell’Egitto perché vi è la convinzione che quest’ultimo non sarebbe in grado di vincere la propria guerra in Libia da solo (neanche con l’aiuto degli Emirati) e finirebbe per chiedere un intervento occidentale nel nome della lotta allo Stato Islamico. Insomma, un intervento da parte delle potenze internazionali sarebbe inevitabile alla fin fine e il rischio di finire come in Iraq e Afghanistan sarebbe alto. Molto alto.

E, tuttavia, né a Washington né a Londra c’è l’unanimità su questa posizione. Anche qui si riproduce una spaccatura fra coloro che premono per il negoziato e quelli che sono preoccupati per l’Is e quindi tentati di intervenire al fianco di Tobruk, senza aspettare i tempi lunghi che i colloqui Onu tra le fazioni libiche comporterebbero.

E l’Italia? Cosa fa? 

Lo stesso dilemma si presenta per l’Italia, dove per ora gli ardori interventisti di metà febbraio(poco dopo le minacce dell’Isis rivolte a Roma) si sono convertiti in sostegno a León, ma con dichiarazioni pubbliche filo-egiziane e filo-Tobruk. Quindi quale è la posizione italiana a riguardo?

Sulla Libia degli ultimi mesi sono convissute due linee. Una, rappresentata dalla Farnesina, sosteneva e anzi organizzava il processo di dialogo delle Nazioni Unite soprattutto facendo leva sull’ambasciata italiana a Tripoli, l’unica grande struttura occidentale aperta nel paese(solo nello scorso febbraio è stata chiusa). La seconda linea era animata dal ministro della Difesa Roberta Pinotti e dallo stesso Matteo Renzi, che già dalla scorsa estate intessevano speciali rapporti con l’Egitto, senza nascondere la preoccupazione per la diffusione del terrorismo jihadista in Libia.

Le due linee perseguono priorità diverse ma marciano parallelamente. La linea del dialogo punta alla stabilizzazione della Libia e alla creazione, attraverso un governo di unità nazionale, di un interlocutore con cui si possa combattere lo Stato Islamico ma anche perseguire le altre priorità italiane: i barconi nel Mediterraneo e la sicurezza energetica prima di tutto. La linea filo-egiziana ha come priorità la lotta allo Stato Islamico prima che questo si materializzi sul suolo nazionale. Il senso di urgenza di questo secondo ordine di priorità spinge a sostenere il dialogo ma ad avere pronto un piano B che consisterebbe nell’appoggio di fatto al governo di Tobruk, se necessario, alla fine, anche dal punto di vista militare.

Le varie posizioni dei paesi coinvolti sono abbastanza controverse e presentano diverse sfumature, sia a livello politico che strettamente economico, ma

Quale potrebbe essere una soluzione alla turbina libica?

L’ipotesi di una missione di peacekeeping che schieri battaglioni di caschi blu lungo i fronti oggi contesi tra nazionalisti e islamisti potrebbe risultare un incubo sul piano operativo. Occorrerebbe schierare qualche migliaio di soldati in zone cuscinetto nelle montagne a ovest di Tripoli dove si confrontano Alba libica e le milizie di Zintān, a Sirte dove le milizie di Misurata combattono lo Stato Islamico e dove la popolazione sosteneva il regime di Gheddafi, nato in quella città. Altri caschi blu sarebbero necessari nella regione dei terminal petroliferi di al-Sidra e Ra’s Lānūf, in mano all’esercito di Tobruk ma sotto attacco da settimane da parte delle truppe di Tripoli. Già così i rischi sarebbero elevatissimi e l’efficacia della missione discutibile poiché la presenza di militari “crociati” attirerebbe jihadisti e kamikaze da tutto il Nord Africa e dal Sahel. La loro presenza non impedirebbe la ripresa delle ostilità tra le fazioni, tutte e tre concentrate sul controllo di pozzi e terminal di gas e petrolio. Ancora più complesso e rischioso sarebbe schierare le forze dell’Onu a Bengasi, Derna e in altri santuari dell’Is e di Anṣār al-šarī‘a in Cirenaica, in una missione che avrebbe costi elevati, scarse possibilità di successo e alta esposizione per le truppe internazionali, le cui regole d’ingaggio, trattandosi di missione dell’Onu, avrebbero ben poche possibilità di risultare incisive o di esprimere una consistente deterrenza.

Non è un caso che il presidente francese François Hollande abbia sottolineato già nel gennaio scorso che l’ipotesi che la Francia partecipi a un’operazione sotto l’egida Onu dipende da “un mandato chiaro, un’organizzazione chiara e dalle condizioni politiche perché questa missione si realizzi”. La scarsa disponibilità degli occidentali a schierare in Libia contingenti militari sul territorio rende comunque difficilmente praticabile l’opzione di una missione di caschi blu. Inviare contingenti africani sarebbe impensabile, considerata l’ostilità razziale che gli arabi, soprattutto i libici, nutrono nei confronti delle popolazioni nere. Difficile anche prevedere l’invio di truppe della Lega Araba, vista la spaccatura tra sostenitori del governo di Tripoli e sponsor di Tobruk.

Occorre trovare una soluzione politica che trovi le varie parti d’accordo: per quanto difficile da realizzare e poi mantenere, un governo “di consenso” almeno tra i grandi gruppi (le milizie di Zintān e Misurata, una parte di Tobruk) comporterebbe comunque alcuni vantaggi: l’Occidente avrebbe un interlocutore, questo interlocutore potrebbe gradualmente guadagnare potere e con esso ribilanciare i rapporti con le frammentate forze militari.

Occorre una presa di posizione rigida. Con i cosiddetti attributi.

In questo senso, sarebbe cruciale continuare a fare muro contro l’eliminazione dell’embargo sulle armi al governo di Tobruk. In secondo luogo, gli Usa e gli europei dovrebbero dire chiaramente che riconosceranno come legittimo solo il governo di unità nazionale e che nel frattempo tratteranno tutti solo come fazioni in lotta ma non come rappresentanti legittimi. Questo vorrebbe dire che né Tobruk né tantomeno Tripoli avrebbero alcuna prospettiva di avere le chiavi del paese senza trovare un accordo.

L’opzione più credibile contro l’Isis? 

Forse, potrebbe essere quella che punti a «sigillare» la Libia per condurre azioni di attacco mirate contro lo Stato Islamico, Anṣār al-šarī‘a e le bande di trafficanti. Un’operazione attuata per lo più dalle forze dei paesi confinanti riunite in una sorta di “coalizione dei volenterosi”, certo di respiro limitato ma che, proprio per questo, risulterebbe sostenibile nel tempo e nello sforzo bellico a tutti i paesi coinvolti nella crisi, consentendo di difendere gli interessi nazionali e garantendo un efficace contrasto dello Stato Islamico e dei traffici illeciti. La disponibilità del Palazzo di Vetro ad autorizzare un “blocco navale” alle coste libiche, annunciata in un’intervista da Bernardino León, consentirebbe all’Italia di arrestare i flussi di immigrati clandestini che dopo la fine dell’operazione Mare Nostrum hanno ripreso a puntare su Lampedusa, mentre le dimensioni dei movimenti (un milione di migranti pronti a imbarcarsi secondo Frontex) non sono più gestibili neppure in termini di accoglienza.

L’Italia dispone dei mezzi militari per effettuare una vasta gamma di operazioni anche in tempi brevissimi, considerando le limitate distanze delle coste libiche dalle basi navali di Augusta e Taranto e aeree di Trapani e Pantelleria, che consentono di concentrare e gestire un intenso sforzo militare verso la Libia.

L’impressione è quindi che il contrasto allo Stato Islamico in Libia e il tentativo di risolvere la crisi libica possa svilupparsi sulla falsariga di quello in atto in Iraq, con una comunità internazionale tesa a rinsaldare le diverse fazioni contro il comune nemico, riservandosi di intervenire con operazioni mirate contro i jihadisti o a tutela degli interessi nazionali di singoli stati, ma evitando di stazionare truppe sul suolo libico.

Una strategia di prevenzione del male, anziché di cura, senza nessuna garanzia di successo. Mentre il 3 giugno giunge la notizia che lo Stato Islamico abbia preso il controllo totale di Sirte, in particolare dell’aeroporto e di un grande acquedotto, rinsaldando sempre più la sua posizione. A soli 300 km dalle coste italiane.

BIBLIOGRAFIA:

1) C. GATTI, «È la Libia la vera emergenza. Abbiamo 6 mesi per salvarla», 23/5/2014, www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-05-03/e-libia-vera-emergenza-abbiamo-6-mesi-salvarla-081223.shtml?uuid=AB5XnRFB

2) M. PERRI, «Cosa possono fare Italia, Russia e Nato in Libia. Parla il generale Tricarico», 4/3/2015, www.formiche.net/2015/03/04/libia-nato-russia-italia

3) E. PETTI, «Ecco tutti i responsabili del caos in Libia. Parla il generale Camporini», Formiche.net, 14/2/2015, www.formiche.net/2015/02/14/libia-isis-vincenzo-camporini

4 )«Al-Dairi: Some 5,000 Foreign Fighters Present in Libya», Libya Herald, 28/2/2015, www.libyaherald.com/2015/02/28/al-dairi-some-5000-foreign-fighters-present-in-libya/#ixzz3ToGB8nOz

5) G. SARCINA, «Un blocco navale davanti alle coste dell’Italia avrebbe l’appoggio dell’Onu», Corriere della Sera, 7/3/2015.

6 Ibidem.

7 )«I francesi realizzano un aeroporto campale in Niger», Analisi Difesa, 17/12/2014, www.analisidifesa.it/2014/12/i-francesi-realizzano-un-aeroporto-campale-in-niger

8 )«Contrordine di Hollande: Parigi non interverrà in Libia», Analisi Difesa, 6/1/2015, www.analisidifesa.it/2015/01/contrordine-di-hollande-parigi-non-interverra-in-libia”

9) “M. FITZGERALD, «Libya’s New Power Brokers?», Foreign Policy, 27/8/2014, foreignpolicy.com/2014/08/27/libyas-new-power-brokers”

10) http://www.jeuneafrique.com/Article/ARTJAWEB20150218090619/gypte-d-fense-s-

11) http://www.bbc.com/news/world-africa-31521282

12)http://www.repubblica.it/esteri/2015/02/16/news/scheda_i_quattro_anni_terribili_della_libia-107440078/

13) http://www.corriere.it/esteri/cards/cosa-sta-succedendo-libia-crisi-paese-6-punti/paese-caos_principale.shtml

14) “Chi ha paura del Califfo”, Limes n°3/2015