Comincio con una premessa: questa non vuole essere una lamentela, non scrivo per piagnucolare e dire che il giornalismo in Italia fa pena o che è tutto un “magna magna” perché non è nel mio stile. Diciamo che quella che troverete qui è una breve e succinta analisi di ciò che sta accadendo in Italia nel mondo della stampa e cosa sono costrette le persone a fare per diventare giornalisti.
Vorrei partire dalle parole di Beppe Severgnini, nota firma del Corriere della Sera, che nei giorni scorsi ha pubblicato questo articolo:
Diventare giornalisti? Bisogna cambiare le regole
Lunedì si è aperto il sesto biennio della scuola di giornalismo “Walter Tobagi” della Università Statale di Milano. La conosco bene: è un’ottima scuola, a mio giudizio la prima d’Italia, dove si entra con un concorso pulito, si studia, si prova e si impara. Il giornalismo, infatti, non è un hobby. E’ un mestiere, e neppure dei più facili.
Le scuole sono un modo di diventare professionista. L’altro, tradizionalmente, è il praticantato: 18 mesi in una redazione permettono di affrontare l’esame di idoneità. La regola è rimasta uguale, ma occorre modificare il tempo del verbo: permettevano. I giornali in crisi, e l’editoria alle prese col ciclone Internet, hanno chiuso le porte. L’Ordine dei Giornalisti s’è così inventato il “praticantato di fatto”. Un percorso cervellotico e tortuoso, diventato la strada maestra: dalla Lombardia, nove su dieci candidati all’ultima prova nazionale sono passati di qui.
Vuol dire che i giovani italiani hanno smesso di scegliere il giornalismo? Manco per sogno. Ci credono, e fanno bene. Se il momento economico è pessimo, il momento professionale è ottimo. Internet è un moltiplicatore di talenti e possibilità. Se sai fare qualcosa, puoi farlo e farlo sapere. Il problema è un altro. Con le regole attuali, i ragazzi non riescono a diventare professionisti. Che si fa? Semplice. Si cambiano le regole.
Esistono tre nuove forme di praticantato che meritano di essere riconosciute.
1. L’impresa giornalistica. Un gruppo di ragazzi si mette insieme e crea un prodotto professionale (un esempio? “Good Morning Italia”, la miglior rassegna stampa quotidiana in circolazione, appena passata con successo a pagamento).
2. Il praticantato individuale. Un giornalista professionista assume un laureato e ne cura la formazione. Lezioni private invece di lezioni collettive. Che differenza fa?
3. L’esperienza all’estero. Aver studiato giornalismo a Columbia (New York) o a City University (Londra)? Non vale. Lavorare per testate prestigiose? Non serve. All’inaugurazione del biennio Tobagi ha partecipato Ferdinando Giugliano. Napoletano, 29 anni, PhD a Oxford, oggi coordina la rete dei corrispondenti esteri del Financial Times sui temi economici. Per l’Ordine dei Giornalisti italiano, neppure questo conta.
L’ho detto lunedì in Statale, lo scrivo qui: se il nostro ordine professionale saprà adattarsi ai tempi, sopravviverà. Altrimenti, scomparirà. E nessuno lo rimpiangerà. Certamente non i ragazzi di oggi, nostri colleghi di domani.
Ecco il link dove trovate l’articolo:http://italians.corriere.it/2014/10/16/28839/#.VD-qHOwuW3Y.facebook
A mio parere, Severgnini ha centrato in pieno la questione. Le soluzioni che propone sono assolutamente condivisibili. Tralasciando la seconda, che
escluderei a priori dal mettere in pratica, le altre due ipotesi sono concrete, in quanto il giornalismo, dispiace dirlo ma è così, lo si può imparare solo lavorando in una redazione o frequentando una scuola di giornalismo (che imita la vita redazionale). Non a casa, comodamente seduti ad ascoltare un giornalista “professore” a pagamento.
Magari un’idea sarebbe quella di mettersi in proprio. Chi ne ha la possibilità, perché non può trasformare un blog in una testata? Certo, con i dovuti riconoscimenti e le dovute accortezze. In fondo, perché un blog personale in cui si fa informazione seria non dovrebbe essere riconosciuto tanto quanto una testata giornalistica?
Altrimenti, l’alternativa al giornalista professionista è quella di diventare pubblicista. Una strada altrettanto difficile da percorrere dato che occorre scrivere su una o più testate giornalistiche riconosciute per almeno due anni ed essere pagati, ma sicuramente meno impossibile dell’altra. Oggigiorno i giornali non assumono, non prendono praticanti, soprattutto a pagamento; le scuole di giornalismo costano in media una quantità spropositata di denaro (togliendo quindi la possibilità a molti di frequentarle) e, nonostante alla fine facciano diventare giornalista, molti laureati restano disoccupati. Ne conosco molti, troppi. Quindi, considerando che i pubblicisti sono riconosciuti tanto quanto i professionisti, perché non tentare questa strada, specialmente per coloro che cominciano ad approcciarsi a questo mondo?
Altra questione sono le università che offrono corsi di laurea in giornalismo ma non vengono riconosciute come le scuole di giornalismo private. Un esempio è l’Università di Parma che nella sua offerta formativa propone un corso di laurea specialistica in Giornalismo e Cultura Editoriale: gli studenti studiano le stesse materie e fanno le stesse cose delle scuole riconosciute dall’Ordine (esiste anche un vero e proprio giornale online, ParmAteneo, che uscirà a novembre in cui si può fare pratica della vera vita redazionale) ma quando escono da lì non hanno nulla in mano per entrare nell’agognato Albo.
Nota bene: si può anche essere pagati poco ma quello che conta, in questo caso è il risultato, cioè diventare pubblicisti ed essere riconosciuti dall’Ordine che, giusto per curiosità, esiste solo in Italia e sapete dove? In Corea del Nord! Ripeto, in Corea del Nord!
In alternativa, un’altra possibilità è quella di vedere se le piccole realtà locali possano prendervi a lavorare, magari redazioni di giornali cittadini. Certo è che, se non hanno soldi i grandi giornali, figurarsi quelli minori. Anche se non è detto, ci sono piccole realtà estremamente organizzate ed efficienti che riescono a tirare avanti e a concedere stipendi che non siano vergognosi. Basta solo cercare.
Come afferma Severgnini e come è stato ripetuto spesso anche allo scorso Festival di Internazionale a Ferrara, IL GIORNALISMO NON E’ IN CRISI, STA SOLO CAMBIANDO. Ed è in grado di offrire, oggi, molte più possibilità che in passato. Basti pensare al digitale e alla sua esplosione. Ma anche qui è inutile dilungarsi, l’argomento è trito e ritrito e, probabilmente, ne sapete più di me.
Il problema resta l’Italia dove, al pari dell’editoria, si è campato per anni di vacche grasse senza preoccuparsi di una gestione oculata delle risorse o
di offrire prodotti che fossero al passo con i tempi (se vi interessa, leggete questo articolo pubblicato su wired.it che parla di editoria, le cui argomentazioni valgono anche per il giornalismo: http://www.wired.it/play/libri/2014/10/14/cari-editori-non-puo-essere-sempre-colpa-crisi/utm_source=facebook&utm_medium=marketing&utm_campaign=wired)
All’estero le cose funzionano così. Che non mi si venga a dire che funzionano solo perché le loro situazioni finanziarie sono migliori oppure perché scrivono in inglese e quindi il mercato è mondiale. Le cose funzionano perché all’estero sono svegli e non perdono tempo con vaghi giri di parole. Sei bravo? Sei valido? Sei assunto! In Italia, invece, funziona così: “Sei bravo? Quanto vuoi? Hai il tesserino? No? Allora niente”.
E’ un problema di forma, di mentalità.
E’ una situazione in cui si viene pagati da Al Jazeera fior fior di quattrini per cinque minuti di video sulle proteste di Roma dello scorso anno mentre si deve trattare fino allo sfinimento con giornali italiani per articoli che, se vanno bene, vengono pagati 70 euro. E ritrovarsi, così facendo, a fare la fine di Francesca Borri. (Ecco il link del suo tanto famoso articolo: http://www.ilpost.it/2013/07/12/francesca-borri-siria/)
Ad ognuno il proprio giudizio.